IL TRIBUNALE Sciogliendo la formulata riserva, ha pronunciato la seguente ordinanza. I. - La curatela del fallimento di Berti & C. s.r.l., dichiarato giusta sentenza di questo Tribunale in data 4 dicembre 2002, ha proposto contro la Banca del Monte S.p.A. una domanda ex art. 67, primo e secondo comma, legge fall. finalizzata a sentir dichiarare l'inefficacia, nei confronti della massa, di talune rimesse confluite su conto corrente della fallita nell'anno anteriore alla sentenza di fallimento. Cio' ha fatto, in data 23 novembre 2007, mediante ricorso ex art. 24, secondo comma, legge fall., sul presupposto dell'immediata applicabilita' di consimile disposizione, a far data dal 16 luglio 2006, a tutte le azioni derivanti dal fallimento. La banca si e' costituita resistendo alla pretesa. II. - Ad avviso del collegio la causa e' stata esattamente incardinata, da parte attrice, mediante ricorso al rito camerale dettato dall'art. 24, secondo comma, legge fall. E tuttavia - come gia' osservato in separati giudizi - la disposizione da ultimo citata, nello stabilire che, salva diversa previsione, alle controversie di cui al primo comma si applicano le norme previste dagli artt.737-742 c.p.c. (con deroga alla disciplina di cui all'art. 40, terzo comma, c.p.c.), non resta immune, per le ragioni che seguono, da fondati dubbi di legittimita' costituzionale. III. - Punti decisivi, in tema di rilevanza, attengono al fatto: (i) se alle azioni ex art. 67 legge fall., proposte dopo il 16 luglio 2006 (data di entrata in vigore della riforma ex d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, salve le modifiche apportate agli artt. 48, 49 e 50), debba o meno essere applicato il procedimento in camera di consiglio di cui al nuovo testo dell'art. 24, secondo comma,legge fall.; (ii) se, sulla ritenuta anzidetta applicazione, rispetto ad azioni gia' proposte alla data del 1 gennaio 2008, possa influire l'abrogazione dell'art. 24, secondo comma, legge fall. conseguente al sopravvenuto d. lgs. n. 169/2007 (cd. decreto correttivo). Osserva il collegio che al primo quesito devesi fornire risposta affermativa; al secondo risposta negativa. Queste le ragioni. (i) Non par dubbio, alla luce del consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale fin qui manifestatosi, che l'azione ex art. 67 legge fall. e' azione derivante dal fallimento, il fallimento essendone il presupposto e non potendo l'azione stessa ammettersi se non a seguito dell'apertura del concorso, previa legittimazione esclusiva del curatore. Secondo il disposto ex art. 24 legge fall., nel testo in vigore al momento della instaurazione della lite (29 dicembre 2007), le azioni derivanti dal fallimento sono soggette al rito camerale. Atteso infatti il generale criterio tempus regit actum, valevole in materia processuale in mancanza di apposita disciplina transitoria, alle azioni de quibus deve applicarsi la legge processuale del tempo in cui le stesse sono esercitate. Per superare il rilievo, non sembra al collegio potersi far leva sulla generale previsione transitoria apposta, ex art. 150, al d.lgs. n. 5 del 2006. Appare risolutivo considerare, in contrario, che questa previsione contiene la disciplina transitoria dei ricorsi per dichiarazione di fallimento (o di concordato fallimentare) depositati prima del 16 luglio 2006, e delle procedure concorsuali pendenti alla stessa data; nel senso che detti ricorsi e dette procedure «sono definiti secondo la legge anteriore». Il testuale riferimento, ai «ricorsi per dichiarazione di fallimento» alle «domande di concordato fallimentare depositate prima», e alle «procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti», ne identifica - e ne delimita - l'oggetto. Non appare quindi seriamente contrastabile il rilievo - gia' formulato da certa dottrina - che la disposizione ex art. 150 non riguarda altro che i pendenti procedimenti prefallimentari, le procedure fallimentari gia' aperte e, al piu', i relativi procedimenti endofallimentari; non anche, invece, le azioni autonome, che semplicemente dal fallimento derivano, e che vanno a parare in un giudizio extrafallimentare. Da cio' la rilevanza, nel presente giudizio, della questione di costituzionalita' afferente l'art. 24, secondo comma, legge fall. (ii) Su detta rilevanza non appare influire la sopravvenuta abrogazione di cui al succitato d.lgs. correttivo. Si osserva che l'art. 3, primo comma, del d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, ha si' abrogato l'art. 24, secondo comma, legge fall. nel testo di cui all'art. 21 del d.lgs. 9.1.2006, n. 5; e tuttavia, in base alla previsione generale transitoria contenuta nell'art. 22 del d. lgs. n. 169/2007, l'effetto abrogativo rileva a far data dal 1 gennaio 2008, con riferimento alle procedure concorsuali aperte successivamente. Dispone infatti l'art. 22 cit. che il decreto correttivo entra in vigore il 1 gennaio 2008 e le relative disposizioni si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore e alle procedure concorsuali aperte successivamente alla sua entrata in vigore. (E' fatta salva l'applicazione alle procedure concorsuali pendenti delle sole disposizioni - qui non rilevanti - ex artt. 7, sesto comma, 18, quinto comma, 19 e 20.) La disposizione abrogativa ex art. 3, primo comma, che parimenti riguarda, non le procedure concorsuali o i procedimenti per dichiarazione di fallimento, sebbene, di riflesso all'art. 24, secondo comma, legge fall., le azioni ordinarie (vale a dire extrafallimentari) che dal fallimento derivano, non e' direttamente mentovata in seno alla previsione transitoria. Sicche' delle due, l'una: o si dice che l'art. 22 del d.lgs. n. 169/2007, nel riferirsi alle procedure concorsuali aperte successivamente alla sua entrata in vigore, ha inteso limitare l'effetto abrogativo di cui all'art. 3 alle sole azioni derivate da fallimenti aperti dopo il 1 gennaio 2008, cosi' contemplando un'implicita disciplina transitoria anche per cio' che attiene a dette azioni; oppure si dice che l'art. 22 cit. ha inteso dettare una disciplina transitoria che riguarda le sole disposizioni direttamente involgenti la disciplina concorsuale in se' (endofallimentare), cosi' stabilendo, quanto alle azioni extrafallimentari, l'abrogazione immediata dell'art. 24, secondo comma, legge fall. a far data dal 1 gennaio 2008. In entrambi i casi, tuttavia, resta indubbia la non interferenza dell'effetto abrogativo sulla fattispecie processuale che qui viene in considerazione: nel primo, quale diretta emanazione della cosi' ricostruita disciplina transitoria (che farebbe deroga al principio dell'immediata vigenza delle norme sul processo correlando l'abrogazione dell'art. 24, secondo comma, legge fall. alle azioni derivanti da fallimenti aperti dopo il 1 gennaio 2008); nel secondo, quale conseguenza del principio processuale tempus regit acturn. E difatti, anche seguendosi - come reputa di fare questo Tribunale - la seconda delle succitate interpretazioni (siccome piu' rispettosa dei principi generali relativi alla successione delle norme sul processo), e ritenendosi l'art. 3, primo comma, del d.lgs n. 169/2007 sottratto alla previsione transitoria che lega (art. 22) l'applicazione del decreto correttivo ai soli fallimenti aperti dopo la sua entrata in vigore, si deve comunque ricavare l'inidoneita' dell'art. 3, primo comma, del d.lgs. n. 169/2007 ad attingere azioni gia' esercitate alla predetta data di entrata in vigore del d. lgs. n. 169/2007. Questo perche', in materia processuale, la regola fondamentale e' quella della efficacia delle norme processuali in rapporto ai fatti compiuti (terapus regit actum); donde la successione della legge nel tempo, da un lato, comporta la necessaria salvezza degli atti compiuti (facta praeterita), e, dall'altro, impone l'applicazione delle norme nuove ai soli atti da compiersi, ferme restando tuttavia l'unita' e la coerenza interna del procedimento. Pertanto, in mancanza di disposizioni transitorie con riguardo all'applicazione delle nuove norme processuali, non appare consentito fare delle medesime un'applicazione retroattiva (oltre tutto lesiva dei precetti costituzionali di ragionevolezza e di assicurazione del diritto di difesa: artt. 3 e 24 Cost.), dovendosi invece salvaguardare l'unita' del procedimento e seguire un'interpretazione ultrattiva delle disposizioni abrogate (cfr. per singole applicazioni Cass. sez. un. 2007/5394; Cass. 2004/7053; Cass. 2003/6877). Osserva il collegio che si e' qui in presenza di disposizioni relative al tipo processuale merce' il quale trattare il giudizio in coerenza con le modalita' di sua instaurazione, se, cioe', processo camerale o processo di cognizione; ed e' evidente che l'atto introduttivo della lite, regolato dalla legge processuale del suo tempo e giustamente attestato, in base a questa, sul ricorso a un ben determinato tipo processuale (il processo camerale), ha in questo senso gia' prodotto i propri effetti in senso non compatibile con l'applicazione immediata della disposizione abrogativa. IV. - Cio' stante, reputa il collegio che l'art. 24, secondo comma, legge fall., come sostituito dall'art. 21 del d.lgs. n. 5/2006, continua ad applicarsi alle controversie come quella in esame, gia' instaurate alla data di entrata in vigore dei d.lgs. correttivo n. 169 del 2007; e, come tale, lo stesso appare incostituzionale per violazione, innanzi tutto, dell'art. 76 Cost. (cd. eccesso di delega). Al riguardo viene in rilievo l'art. 1, sesto comma, della legge delega 14 maggio 2005, n. 80. Con detta norma e' stato espressamente conferito il potere di «modificare la disciplina del fallimento»; ed e' stato precisato che, in un tale ambito oggettivo, l'esercizio del potere di modifica deve avvenire nel rispetto - per quanto di interesse - del criterio direttivo di semplificazione-accelerazione (art. 1, sesto comma, lett. a), n. 1): «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e l'accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia». Anche in ordine alle controversie, dunque, il potere di intervento del governo devesi ritenere essere stato conferito nei limiti dell'oggetto della disciplina del processo fallimentare, in senso funzionale (di semplificazione e di accelerazione del processo di fallimento) e in senso oggettivo (mediante il riferimento alle sole controversie «in materia fallimentare»). Sembra al collegio, cioe', che - stante il conferimento del «potere di modifica della disciplina del fallimento» - la disposizione della delega fosse nel senso dell'accelerazione delle procedure applicabili ai ricorsi per dichiarazione di fallimento e alle successive controversie endofallimentari, con implicita, ma inequivoca, esclusione di ogni riferimento ai processi ordinari semplicemente derivanti dal fallimento. Il tutto in coerenza con la ratio di semplificazione del cd. processo di fallimento in se' e per se' considerato. E difatti nessuno dei successivi principi e criteri direttivi appare destinato a consentire, al governo, di stabilire una nuova disciplina processuale delle azioni ordinarie che derivano dal fallimento; disciplina del resto abrogata - come sopra rammentato - per le azioni successive al 1 gennaio 2008 (ovvero, secondo l'alternativa interpretazione, per le azioni derivanti da fallimenti aperti dopo tale data). Se questo e', appare chiaro che l'art. 24, secondo comma, legge fall., nel riferire la specificita' del processo ivi indistintamente stabilita, secondo l'innovata modello camerale puro, a tutte le azioni che derivano dal fallimento, comprese le azioni autonome extrafallimentari, ha ecceduto i limiti imposti dalla delega, finendo col coinvolgere in un unico rito (oltre tutto privo di adeguate e predeterminate regole formali) vuoi le controversie «in materia fallimentare» (id est, quelle relative alle singole fasi del processo di fallimento), vuoi le controversie che semplicemente suppongono il fallimento come mero (ancorche' necessario) presupposto. V. - In secondo luogo, e comunque, la disposizione ex art. 24, secondo comma, legge fall. appare incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, primo comma, Cost. Il riferimento all'art. 3 Cost. viene fatto in relazione al ruolo che il principio di uguaglianza e' venuto ad assumere nel tempo, quale clausola generale di ragionevolezza. Tenendo in conto i correlati limiti imposti dal principio alla legislazione ordinaria, appare al collegio manifesta la irrazionalita' della imposizione del modello processuale di tipo camerale al di fuori dell'ambito funzionale di esso proprio, e segnatamente per la soluzione di controversie direttamente involgenti la tutela di diritti soggettivi (tale essendo quella che ne occupa) : modello camerale puro utilizzato alla stregua di contenitore neutro, privo di una specifica regolamentazione delle fasi della cognizione; e anzi rimesso alla discrezionalita' del giudice e destinato a concludersi con un decreto non suscettibile di giudicato. Sembra al collegio irragionevole, in particolare, e pertanto lesiva del principio ex art. 3 Cost., la scelta di imporre il modello camerale puro (ex artt. 737 e seg. c.p.c.) in senso funzionale non gia' alla realizzazione di obiettivi tipici della giurisdizione camerale in se', quanto in funzione della realizzazione degli obiettivi della giurisdizione ordinaria. Una simile prospettiva irragionevolmente trascura la differenza ontologica della tutela camerale rispetto a quella ordinaria, alla luce della quale differenza potersi giustificare il carattere deformalizzato della prima rispetto a quello formale della seconda. Invero, non appare il procedimento camerale in senso stretto destinato alla tutela del diritto soggettivo in funzione del giudicato (che e' invece essenziale quando si discorra di tutela piena del diritto soggettivo), sebbene alla tutela di mere e specifiche facolta' (o di poteri) comprese nel piu' ampio contenuto del diritto soggettivo stesso (previa contestuale valutazione, per cio', di eventuali concorrenti interessi superindividuali). Mentre, garanzia fondamentale dei processi a cognizione piena, siano essi di rito ordinario o di rito speciale, nei quali l'accertamento della situazione giuridica soggettiva deve poter sfociare nel giudicato, e' l'esattamente opposta predeterminazione delle forme. La estensione generalizzata a tutte le azioni che derivano dal fallimento del modello di giurisdizione camerale ex artt.737 e seg. c.p.c., oltre che irrazionale per omessa considerazione dei limiti funzionali del modello camerale in se', appare determinativa, altresi', di una disparita' di trattamento tra situazioni omologhe di accertamento e di tutela del diritto soggettivo, per il sol fatto, appunto, che all'azione si associno elementi del tutto casuali: (i) il fatto che il fallimento sia stato o meno pronunciato prima del 1 gennaio 2008; (ii) il fatto che l'azione sia stata o meno promossa prima di tale data. In piu' la predetta medesima estensione alimenta il dubbio di una compressione dei diritti di difesa garantiti, alle parti del processo, dall'art. 24, secondo comma, Cost., atteso l'effetto di esporre le parti medesime a regole processuali correlate a sempre incerte direttive giurisdizionali, variabili, oltre tutto, a seconda dell'ufficio giudiziario. E infine non pare compatibile col generale principio ex art. 111 Cost. che vuole, oggi, ogni «giusto processo» necessariamente «regolato per legge» in vista del perseguimento della finalita' propria del tipo funzionale, apparendo - la ricordata generalizzata estensione del modello camerale - in contrasto con l'intima essenza dello stesso principio del giusto processo tratto dalla superiore previsione costituzionale, che impone previamente di applicare a ciascuna forma giurisdizionale una regolamentazione normativa («per legge») che tenga conto delle caratteristiche dell'accertamento che si richiede. VI. - E' appena il caso di aggiungere che, sulla questione cosi' come prospettata, non sembra di alcuna influenza ostativa il precedente rappresentato da Corte cost. n. 1998/141, per la sostanziale diversita' dell'ambito di riferimento in rapporto ai parametri di costituzionalita' presi in considerazione. Ed anzi, proprio seguendo l'impostazione di quel precedente, e' da osservare che non e' qui in discussione la legittimita' del rito camerale in se', sebbene la doverosa valutazione, all'indicato fine del controllo di costituzionalita', «della rispondenza del medesimo a obiettive ragioni giustificatrici, e in primo luogo alla natura del processo in cui tale rito si svolge» » [cosi' in motivazione Corte cost. n. 1998/141, in riferimento a Corte cost. n. 1989/587 (ord.). VII. - Quanto esposto induce il collegio a sollevare la questione di costituzionalita' sopra indicata, nella misura in cui l'art. 24, secondo comma, legge fall., come sostituito dall'art. 21 del d.lgs. n. 5/2006, continua a trovare applicazione relativamente alle azioni, derivanti da fallimenti pendenti al 1 gennaio 2008, introdotte prima della suddetta data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169/2007. Alla luce del testuale richiamo dell'art. 24, secondo comma, legge fall. agli artt. «da 737 a 742 del codice di procedura civile», nessuna interpretazione sembra infatti sperimentabile in chiave adeguatrice, nel senso di una selezione tra le disposizioni richiamate ovvero in funzione della inapplicabilita' del riferimento integrale al modello camerale puro per le azioni ordinarie derivanti dal fallimento.